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Il senso della profilassi immunitaria dell’umanità

Nuove Scienze

Il senso della profilassi immunitaria dell’umanità

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Il senso della profilassi immunitaria dell’umanità

L’infezione dogmatica e patogena della realtà come “male necessario”

«La gente esige la libertà di parola per compensare la libertà di pensiero, che invece rifugge». (Kierkegaard)

Poiché l’illuminazione non si insegna e non si impara, né si eredita, ma la si acquisisce per elaborazione personale del proprio vissuto, c’è una certa cosa da approfondire: la storia della teoria dei germi. Rudolf Virchow, il padre della teoria dei germi, ha dichiarato un giorno dei suoi ultimi anni:

«Se potessi rivivere la mia vita, la dedicherei a provare che i germi cercano il loro habitat naturale, i tessuti malati, non causano la malattia».

Nell’opera La Grande Equazione, Vittorio Marchi esprime il suo pensiero scientifico sul modo in cui il sistema sanitario nazionale dovrebbe offrire cura e assistenza ai suoi cittadini: “…per andare incontro ai bisogni dei cittadini, la prima cosa da fare sarebbe quella di chiarire loro che il vero assistente sanitario del loro self non è il medico ma la Natura”.

La redazione della collana Scienza e Conoscenza


Redazione Web Macro

A seguire, anche il grande batteriologo Paul Ehrlich (1854-1915) ha cercato, a suo modo, di dare al mondo civilizzato le dottrine della teoria della malattia della microbiologia e dell’immunologia prima della scoperta delle vitamine, degli elementi traccia e di altre sostanze nutrienti. Pare che Ehrlich, nelle sue esperienze di laboratorio, in seguito all’uso di certe sostanze coloranti, si fosse accorto che i batteri e le loro tossine si andavano a fissare solo su alcune parti della cellula, in virtù di alcuni elementi che egli stesso chiamò “recettori”. Nell’esaminare il comportamento di questi microrganismi egli ne avrebbe dedotto che la proprietà fondamentale della natura è quella di sostituire o reintegrare in abbondanza ciò che in essa, in termini di struttura organica, va o può essere destrutturato o distrutto.

 

La teoria della microbiologia e dell’immunologia

Sarebbe stata questa l’idea guida da cui prese le mosse la sua indagine. La prova (e la dimostrazione clamorosa) era che, ogni qualvolta che si verificava un’infezione del sangue in cui i recettori cellulari venivano decimati dai germi e dalle tossine da esso prodotte, nel liquido ematico stesso si andavano sviluppando dei “sostituti” dei recettori, ancora più ricchi in vitalità, forza e numero, in grado di rimpiazzare l’organico in misura addirittura eccedente. Si trattava, a quel punto, di mostrare alla comunità scientifica una visione generale del fenomeno, che tuttavia avvalorasse nella pratica tutti i presupposti contenuti nella teoria.

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La Grande Equazione

 

Così Ehrlich fu in grado di dimostrare ampiamente come, nel caso in cui la malattia non si manifestasse in maniera palese con la classica sintomatologia, fosse sufficiente introdurre nell’organismo interessato pochi germi o poche tossine per provocare immediatamente al suo interno la produzione di un eccesso di sostanze difensive, tipo anticorpi, in grado di procurare la necessaria immunità cercata. Si convenne allora di definire “attiva” questa forma di immunità ottenuta mediante inoculazione diretta del “farmaco”: un’operazione che si distingueva nettamente da un’altra forma di immunizzazione detta “passiva”, perché praticata per via indiretta con un metodo consistente nell’iniettare nell’organismo umano degli anticorpi generati preventivamente da antigeni estratti da organismi animali. In certe situazioni, per esempio, nel caso del morbillo, l’intera operazione di immunizzazione presentava però difficoltà non indifferenti, perché, non essendo gli animali infettabili con il bacillo del morbillo, non poteva essere estratto dal loro organismo alcun anticorpo, come invece dettava questo metodo.

La difficoltà allora fu superata con un trattamento, consistente nell’immettere nel sangue di alcuni bambini del sangue infetto prelevato da genitori morbillosi. Il risultato fu che i bambini non presero alcuna malattia. «Era la prova che l’immunità al “male” o alla “infezione” non è una cosa che si eredita, ma è predisposizione che si acquista». Noi non prendiamo le malattie per retaggio, le fabbrichiamo.

L’esperienza di Ehrlich imponeva questa definizione, ma l’analisi della stessa ne nascondeva un’altra di potenzialità e portata ben più ampie. Dal riscontro fatto sugli esiti delle prove di laboratorio si poteva dedurre che malattia e immunità erano qualità che dovevano essere acquisite prima, in via preventiva, dai padri e dalle madri, perché i loro figli potessero poi acquisire l’attitudine a possederle. Oggi questo tipo di conoscenza richiede un riesame storico dei “mali” dell’uomo, insieme a quello dei metodi da lui sviluppati per affrancarsene. Pensiamo che questa revisione totale, incentrata sul tema della panpatologia organica debba essere trasferita, per analogia con il piano fisico, dalla sfera individuale a quella della società, della razza e della cultura. Qui sta il rapporto tra l’individuale e l’universale. Qui sta l’etica storica della patologia.

Proprio come un figlio non eredita dal genitore l’immunità alla malattia, ma deve acquisirla, così un individuo della nostra epoca non eredita dall’epoca precedente la capacità di essere inattaccabile (il vaccino) dai vari idoli, e tanto meno quella di essere immune dall’arrendersi ciecamente al “male dell’ignoranza”. Per acquisire sia l’una che l’altra capacità occorre che il “padre” o l’“universale” dell’illuminato suo frutto (figlio), che tale individuo sarà, debba prima contrarre tali affezioni, e ciò non può avvenire a prescindere dalla malattia.

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Credere a ciò che l’establishment scientifico vuole che si creda

Questa versione della realtà dei fatti in campo scientifico è stata più volte giudicata priva di fondamento e ritenuta in genere del tutto campata in aria, tanto che perfino degli illustri clinici ammettono la sua insostenibilità per evidenti vizi filosofici o metafisici. Non è affatto così, ma sembra che credere a ciò che l’establishment scientifico vuole che si creda abbia pur sempre una sua intrinseca utilità. Nessuno può negare, infatti, che l’agire per fede è ciò che fino a oggi ha promosso il progresso tecnico e scientifico.

È il caso, però, di porsi una domanda: e se tutto questo fosse stato un “malanno”, anche se necessario, anziché un beneficio? Bisogna pur sempre ricordare che la fede fa parte di quel tratto della mentalità umana, soprattutto religiosa ma anche scientifica, che non ha alcuna intenzione di superarla per trovare la verità. In fondo, credente e non credente sono meri termini tecnici per la ricerca della verità.

La storia antica insegna che l’agire per fede è sempre stato una cieca resa alla volontà divina. Se così non fosse, quale potere di vita e di morte avrebbe mai avuto l’antico inquisitore del Santo uffizio nell’esercitare la sua opera nefasta e riprovevole nei riguardi di milioni di persone indifese? E in cosa mai la storia moderna è cambiata, visto che anche oggi c’è un agire per fede, ridotto all’avere una cieca fiducia nella logica matematica e astratta degli algoritmi elaborati da un calcolatore? Cos’è tutto questo se non una “stagione” dell’uomo, in cui l’agire per fede non è altro che una forma alienata, in cui l’uomo si estranea e delega la sua responsabilità a un idolo, sia esso dio o un computer? 

Ricordiamo sempre che il vero assistente sanitario non è il medico ma la Natura.

 

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